Cosa c’è dietro l’etichetta: gli abiti che indossiamo e le nuove forme di schiavitù

 Incontro con Francesco Gesualdi sabato 14 marzo in via Garibaldi 33

volantino tessile sostenibile Gesualdi

Gli abiti che indossiamo:  quanti chilometri hanno viaggiato prima di arrivare nel nostro armadio? quali sono le condizioni lavorative di chi ha concretamente realizzato i capi?

Sono passati quasi due anni dal crollo del Rana Plaza, il palazzo di Dacca in Bangladesh, in cui sono morte 1138 persone e oltre duemila sono rimaste ferite mentre lavoravano, in subappalto, per 28 grandi marchi occidentali del tessile. Tra queste anche Benetton che solo recentemente ha deciso di risarcire le vittime grazie alla pressione di numerose associazioni tra cui Clean Clothes (in Italia Campagna Abiti Puliti) e Labour Behind The Label e alla sottoscrizione, da parte di più di un milione di cittadini, della campagna internazionale proposta in collaborazione con la comunità online Avaaz.
Il Rana Plaza non è un caso isolato. La globalizzazione della produzione ha creato in molti paesi del sud del mondo nuove forme di schiavitù, e la filiera dell’abbigliamento è sempre più coinvolta in questi meccanismi. Ma anche in Italia le condizioni di lavoro nell’industria dell’abbigliamento e delle cal zature sono mutate negli ultimi venti anni: molte le imprese che hanno chiuso, alta la riduzione del fatturato. E in molti casi le condizioni di lavoro e salariali, sopratutto nei subappalti, sono al limite dello sfruttamento.

Di questo parlerà Francesco Gesualdi, fondatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo e referente della Campagna Abiti Puliti, sabato 14 marzo in via Garibaldi 33 presso la sede del Distretto di Economia Solidale Altro Tirreno che assieme alla campagna Bilanci di Giustizia ha organizzato un ciclo di incontri sul tema delle filiere tessili e le relative problematiche ambientali etiche e sociali.

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